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Giovanni Zanzani
Il signor Arturo e le scale (racconto)
Note biografiche

IL SIGNOR ARTURO E LE SCALE

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Giovanni Zanzani


     Che Arturo Diaz si fosse lanciato nella tromba delle scale del condominio dove abitava, una magnifica tromba elissoidale che datava la costruzione dell'immobile ai primi decenni del secolo, avrebbe potuto essere attribuito ad un proposito lungamente meditato come pure ad una decisione istantanea. Entrambe le ipotesi erano ugualmente sostenibili.
In favore della prima vi era il dato innegabile che quell'idea circolava nella sua testa da quando egli si ricordava di averne una, per la seconda non era da escludere che essa avesse approfittato di un attimo di distrazione per balzare dal deposito delle elucubrazioni alla plancia di comando del suo cervello. Sta di fatto che in quel bel pomeriggio autunnale l'impiegato della Banca di Solidarietà Artigiana stava precipitando nel vuoto della elegante struttura architettonica ad una velocità per niente influenzata da quel dubbio.
Si fosse trattato di una azione pensata o no la sua drammaticità la ascriveva agli argomenti cui il signor Arturo attribuiva un carattere di pesantezza. Allo scavalcamento della ringhiera del settimo piano invece aveva fatto seguito una sensazione di assoluta leggerezza e questa contraddizione lo indusse a riflettere.
Gli appariva evidente che il luogo comune che sposa la leggerezza alla gioia e la pesantezza al dolore era assai impreciso. La sensazione che avvertiva in quel momento dimostrava al di là di ogni dubbio che anche l'evento più tragico può avvenire in condizione di perfetta imponderabilità. Inoltre che cosa è il peso se non l'effetto della forza gravitazionale, e forse che quella sa distinguere i momenti belli da quelli brutti? Il signor Arturo non ne veniva a capo e se ne dispiaceva sinceramente.
Così ragionando si venne a trovare all'altezza del sesto piano e poiché il corpo nel cadere aveva compiuto una mezza rotazione sull'asse trasversale il suo sguardo, diretto ora dal basso verso l'alto, centrò le mutandine della signorina Valeria che usciva di casa in quell'istante. Per la prima volta poteva vederla come aveva sempre sognato. La constatazione lo riempì di stupore, ecco in che situazione deve trovarsi un uomo per fare una cosa semplice e tanto desiderata, si disse.
Al passaggio del quinto piano non poté non notare la vecchia Olbia piegata in due che ripuliva lo scalone. Il signor Arturo pensò al suo buon stipendio di bancario e a quelli ancor più sostanziosi dei direttori che non avevano nemmeno l'obbligo di recarsi in ufficio, poi alla povera grassona che sputava l'anima per far brillare i pavimenti del loro palazzo in cambio di un tozzo di pane. Era più che evidente che si trattava di una ingiustizia colossale. Ma non era organizzato in questo modo tutto il sistema della distribuzione della ricchezza? Chi lavora ha una camicia e chi non lavora ne ha due, concluse amareggiato.
Al quarto piano abitava monsignor Rallo sulla cui porta brillava un crocefisso di bronzo. Il sacro soggetto era quanto di più indicato per suggerire pensieri consoni a un uomo nella posizione del signor Arturo ma a lui il simbolo della intera cristianità e di tutta la sua cultura appariva ora semplicemente come la sagoma di un poveraccio inchiodato a due travi in omaggio alla prevaricazione più brutale. Arturo Diaz rimase interdetto, quella era un'autentica scoperta, e lui che dell'appartenenza al grande occidente cristiano aveva sempre mostrato tanto orgoglio!
Così scuotè la testa sconsolato o almeno pensò di farlo, oggettivamente a quella velocità non avrebbe giurato di esserci riuscito. Scorse invece, e di ciò fu certo, sua moglie Cecilia entrare con fare furtivo in casa di Brouillard, il pianista da strapazzo ma grande divoratore di femmine che abitava al terzo piano. Il signor Arturo che giusto in quell'istante stava per rivolgere alla consorte l'ultimo pensiero provò una stretta al cuore.
A dire la verità il suo rammarico durò poco, la vista del secondo piano gli fece subito rammentare Lucia, la spilungona con la quale aveva passato i pomeriggi più belli della sua vita. L'amarezza per il tradimento di Cecilia fece posto a quella di non aver destinato a chi più lo meritava il tributo dell'estremo sospiro.
Al passaggio del primo e ohimé per lui ultimo piano il signor Arturo aveva un grande problema, se ne stava andando da questo mondo non solo senza nulla di bello o di buono da condurre con se nel caso che nell'aldilà avesse potuto fare uso di ricordi, ma senza aver potuto individuare nessun valore universale sul quale conformare il pensiero nell'atto terminale del suo funzionamento.
Il sole in quel momento stava tramontando e una lama di luce faceva brillare la targhetta di bachelite dorata sulla porta del professor Santi, vecchio insegnante di matematica e accanito giocatore di poker. "Il caso, caro amico, non vi è altro che il caso". La frase con la quale il professore commentava vittorie e sconfitte fu l'ultima a balenare nella testa del precipitante prima dello schianto.
Ermete Rossi e Gaetano Salvadori erano i facchini incaricati di trasportare poltrone e divani dall'ampio salone della contessa Sinibaldi alla bottega del tappezziere giù in strada. In quel tipo di operazione di solito era Ermete, il più grosso, a stare davanti ma quel pomeriggio chissà perché egli aveva voluto cambiare posizione. Va da se che quando il signor Arturo piombò sulla grande ottomana, Gaetano ebbe i garretti terribilmente devastati dal mobile mentre Ermete subì un trascurabile schiacciamento delle punte dei piedi. Il primo non perdonò mai al compagno di avergli rubato il posto.
Arturo Diaz nel trambusto perse una scarpa e per quanto la cercasse non fu mai in grado di ritrovarla.



(inedito)


L'autore: Giovanni Zanzani

Giovanni Zanzani, nato a Sant'Agata sul Santerno nel 1949, risiede a Bologna.

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