rivista di letteratura in embrione

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Eraldo Baldini
Il gorgo nero (racconto)
Note biografiche

IL GORGO NERO

d i

Eraldo Baldini


     Non era facile riprodurre quel tono di luce, quello sfuocarsi dei colori, quel materializzarsi dell'afa nell'immobilità del pomeriggio di fine agosto.
Adelmo posò il pennello poi fece un passo indietro, fissando senza espressione la tela. Provò a stringere gli occhi, a farsi schermo allo sguardo con la mano, a cambiare punto di osservazione. No, quello che vedeva non lo soddisfaceva proprio.
Si tolse il cappello di paglia, bianco in origine e ora macchiato dei colori più disparati, si passò il dorso della mano sulla fronte, poi camminò lentamente verso i campi.
Era in quella splendida campagna da due settimane, e dopo una prima seria di lavori buoni, adesso pareva che le sua capacità si fossero inaridite. “Mi fanno bere e mangiare troppo, e troppo bene” disse a se stesso con un sorriso storto. Era ospite pagante di una famiglia di contadini gentili, in una grande casa al limite della pianura da cui si godeva la vista dei bastioni delle colline, ora azzurre ed evanescenti, ora mosaici nitidi di campi, boschi, case, strade, pagliai. E l'ospitalità rurale lo stava impigrendo. Ottima la tavola, buono il vino, belle le ragazze di quella famiglia numerosa (non era ancora riuscito a capire i ramificati rapporti di parentela all'interno di quell'esercito); e piacevoli erano le serate, passate spesso all'aperto, seduti nella grande aia, a fare chiacchiere o ad ascoltare storie e fiabe.
Partito da Genova aveva attraversato l'Appennino e una parte di pianura, raggiunto il Po l'aveva seguito fin quasi al delta, poi aveva puntato verso sud. Voleva arrivare là dove i monti si tuffano nel mare, al confine tra la Romagna e le Marche, poi tornare alla sua città. Con un bel numero di disegni e di tele nel baule del calesse, sperava.
Strappò un filo d'erba, lo mise in bocca, fece scorrere lo sguardo all'orizzonte, poi tornò verso il cavalletto e la tela. Prese in mano il pennello, e in quel momento udì il suono.
Partì basso, come una vibrazione sorda, poi si alzò e si acuì, passando dalla tonalità del tuono a quella di un urlo che riempì il cielo; infine decrebbe lentamente, fino a spegnersi in una vaga eco lontana.
Adelmo era rimasto impietrito col braccio alzato davanti alla tela. Non aveva mai udito nulla di simile in vita sua, nulla di più strano e impressionante.
Sentì dietro di sé aprirsi la porta della grande casa e vide i bambini uscire e parlarsi sottovoce. Poi quel rumore incredibile (pareva che venisse dalle colline; dalla gola di un grande mostro nascosto tra di esse, gli venne da pensare) sommerse di nuovo la campagna.
“Il Gorgo Nero” sentì che bisbigliavano i bambini quando l'ultima vibrazione di quel suono svanì, “l'urlo del Gorgo Nero...”
Lui li guardò, poi fece per chiedere qualcosa. Ma si girarono e zitti corsero verso la carraia che si inoltrava nei campi. Sentì venire di là lo scuotere e il cigolare di un carro, muggiti di buoi, voci e comandi. Rientravano. Erano le quattro e mezza del pomeriggio, e già gli uomini e le donne tornavano dalle terre, svelti e con un'espressione seria.
Staccarono il carro nell'aia, portarono nella stalla i buoi, riposero gli arnesi, rinchiusero i maiali.
“Che succede?” chiese Adelmo a Siro, il capofamiglia, che con la mano a riparare gli occhi dal riverbero del sole guardava verso le colline.
“Urla il Gorgo Nero. Era parecchio che non succedeva. L'ultima volta l'abbiamo sentito nel maggio di sette anni fa, e il mese successivo il maltempo mandò in malora il raccolto, e furono carestia, fame e miseria. Preannuncia sempre disgrazie e sciagure, quell'urlo”.
“Siete rientrati dai campi per quello?” chiese Adelmo.
“Si, per quello. Le bestie si spaventano e non lavorano più, quando lo sentono. E noi” aggiunse guardandolo “ci spaventiamo più di loro”.
“Ma che cos'è questo Gorgo Nero? E da che cosa è provocato quel rumore?”
Siro sedette sul ceppo di un olmo tagliato e fece segno verso le colline. “Dicono che è qualcosa del monte Falterona. Mio nonno raccontava una fiaba, diceva che là c'è la grotta degli orchi, che a volte litigano tra di loro e gridano. Qualcun altro dice che il Gorgo Nero è una voragine enorme e senza fondo, nella foresta tra Lama e Campigna, e che il rumore esce da quel buco d'inferno. Lo si sente fino al Po, e oltre”.
“Ma in realtà che cos'è?” insisté Adelmo.
L'uomo lo guardò negli occhi. “Nessuno lo sa. Ma quello che importa è che di bene non ne ha portato mai, l'urlo del Gorgo Nero. Mai”.
Quella sera la cena fu meno abbondante e meno allegra del solito. Nessuno scherzò, nessuno rise. Se uno dei bambini si muoveva troppo o schiamazzava, subito occhiate dure lo bloccavano.
“Mi sono sembrati preoccupati davvero” scrisse Adelmo quella sera stessa in una lettera alla sorella. “Del resto, al di là di quelle storie campagnole di orchi e di baratri infernali, ti confesso che quel suono non ha mancato di stupirmi e di impressionarmi. Deve trattarsi dell'eco di frane nelle colline, o dell'amplificazione del rumore di correnti di vento in qualche lontana gola. Quindi può esserci del vero in quello che i contadini raccontano: nel senso che forse esiste un orrido, o una caverna che attraversa il monte...sì, forse esiste una cosa, un luogo, quello che loro chiamano ‘il Gorgo Nero', e dev'essere suggestivo da vedere e da dipingere, così come lo è ascoltare l'urlo che vi si produce e che fa rabbrividire il cielo e la terra, gli uomini e gli animali, pur sotto il calore del sole d'agosto”.
Prima di spegnere il lume a petrolio e di addormentarsi, prese dall'armadio e dai cassetti i suoi abiti, li piegò e cominciò a sistemarli nel baule. Il mattino dopo, aiutato da una delle ragazze, finì l'operazione e caricò i bagagli nel calesse. Poi, dopo grandi strette di mano e saluti, si appartò con Siro e gli pagò il conto della sua permanenza.
“Se ne va così anzitempo perché ha sentito l'urlo del Gorgo Nero?” gli chiese il contadino.
Adelmo esitò, poi rispose: “Sì”
“L'ha spaventata?”
“No, tutt'altro. Mi ha affascinato. E non ne fuggo lontano: voglio andare a cercarne la fonte”.
L'uomo rimase per un po' a guardarlo in silenzio, poi gli disse: “Buona fortuna”. Gli strinse la mano e l'accompagnò fuori.
Allontanandosi col calesse lungo la carraia polverosa e alberata, Adelmo ogni tanto si volse a guardarli. Erano tutti là nell'aia che lo seguivano con lo sguardo. Le ragazze agitavano fazzoletti bianchi in saluto.

Al Falterona sapevano del Gorgo Nero, ma non della leggenda che la voleva in quel monte. Fecero ampi gesti verso il Casentino, anch'essi parlarono di una voragine senza fondo nella foresta della Lama, di fumo e fetore che uscivano da quell'enorme pozzo e dell'urlo mostruoso che a volte ne scaturiva. Adelmo si fece indicare la direzione, e per strette vie tra i monti diresse là.
Giunse a Badia una sera che già iscuriva. Settembre era arrivato e aveva portato con se nubi basse e informi, gravide di umidità, che scivolavano sui fianchi dei monti neri di boschi. Le rade borgate e le case di sasso parevano lottare per difendersi dall'abbraccio lussureggiante della foresta silenziosa e imponente.
In una locanda all'uscita del paese, cenò nella sala fredda cercando tepore nel vino rosso e denso; poi, quando stava per salire nella sua camera, stanco di quel viaggio tra le montagne e i passi, si accorse che una donna piccola, bionda e lentigginosa stava accendendo il fuoco nel camino. Bevve ancora un bicchiere, poi sedette di fronte alla fiamma che già crepitava diffondendo nella stanza sentori di fumo e di resina.
Era l'unico ospite della locanda, e il proprietario, un uomo segalino senza età, venne a sedersi accanto a lui portando una bottiglia di grappa. “E' buona” disse. “La faccio io”.
Adelmo accettò un bicchiere, poi fissando il fuoco chiese: “ Avete sentito urlare il Gorgo Nero, una decina di giorni fa?”
L'uomo sorrise. “Sì, l'abbiamo sentito. Era parecchio che non succedeva”.
“Sette anni” disse Adelmo bevendo un altro sorso.
“Sette anni, già”
“Giù nel piano dicono che il Gorgo Nero è una voragine che si trova qui, in questi monti”.
L'uomo lo guardò, ancora con un sorriso. “Da noi invece si vuole che l'urlo venga dalla Tana del Re Tiberio”
“E cioè?”
“E' una grotta vasta e misteriosa nei monti verso Rivola. Là dentro non entra mai nessuno, perché la leggenda dice che lo spirito inquieto del re protegge grandi tesori d'oro. In quell'antro c'è il Gorgo Nero”.
Adelmo si tolse la giacca, il fuoco e la grappa cominciavano a dare caldo. “Mi avevano parlato di una voragine senza fondo che sarebbe qui nei dintorni, e da cui uscirebbero fumo e rumori”.
Il locandiere attizzò il fuoco, provocando un'esplosione di scintille, poi annuì. “Ne parlano giù nel piano, credo. Forse perché dai fianchi di quei monti si alza il fumo delle carbonaie. E poi qualche pozza sulfurea c'è davvero, qualche polla, e vapori che escono da soffioni e fenditure. Ma non c'è alcuna voragine, non ci sono pozzi infernali da cui esca quel...quel suono”.
Chiacchierarono ancora, poi Adelmo salì in camera. Faceva freddo, di sopra, e la finestra si affacciava sul nero dei monti ammantati di alberi.
Dormì male, e non solo per il freddo. Sognò grotte oscure, alte come cattedrali, piene di pipistrelli e di voci rimbombanti. In fondo ad una di esse si apriva un abisso vertiginoso, nel quale lui cadeva urlando in un precipitare senza fine.

Quando arrivò a Rivola, dopo un viaggio reso difficile da una pioggerella minuta e gelida, aveva la febbre. Si guardò allo specchio nella stanza scura dell'alberghetto e si vide gli occhi lucidi e infossati, le palpebre arrossate, la barba lunga che copriva un pallore marcato. “Mio Dio!” disse alla propria immagine. Forse i disagi del viaggio, o il freddo e l'umido dei monti, oppure, ancor prima, gli acquitrini malsani del Po, gli avevano regalato un malessere che ora lo attanagliava e lo faceva rabbrividire.
Si infilò senza svestirsi sotto le coperte del letto, e chiuse gli occhi. “Ma che ci faccio qui?” pensò. “Che cosa sto cercando? E perché?”.
Non scese a cena, né si alzò dal letto. Un irrequieto dormiveglia lo imprigionò per tutta la sera e la notte. E il giorno dopo si impose di non affaticarsi a salire verso le grotte e di non rincorrere con la mente l'ossessione di quell'urlo, di quell'antro, di quel posto stregato che voleva dipingere, o forse solo trovare.
Seduto su un muretto di sassi disegnò le colline ferite, quasi sbranate, a tratti, da profondi e aridi calanchi che parevano provocati dagli artigli di una bestia gigantesca.
Pranzò da solo, e il cibo, caldo e saporito, lo tirò su.
Fu nel tardo pomeriggio che si avviò, a piedi, verso la Tana del Re Tiberio. Dal locandiere si era fatta indicare la direzione; non gli aveva parlato né del Gorgo Nero, né di quanto nella caverna si aspettava di trovare.
La grande bocca dell'antro si apriva, scura, tra il verde fitto e tenace della vegetazione. Entrò nel freddo della grotta e avanzò nel silenzio rotto solo dallo scricchiolio dei propri passi; lì dentro, la luce e il calore del sole sembravano un ricordo lontano. Camminò per un po' sotto volte imponenti come quelle di una gigantesca chiesa; poi sedette su un sasso, ascoltando gocciolii e fruscii misteriosi. Stette così a lungo, nell'oscurità, perdendo il senso del tempo. Quando tentò di proseguire, si accorse che ben presto il passaggio si faceva stretto e buio.
Poi brividi di freddo (o di febbre?) lo scossero; si girò, e lentamente uscì dalla grotta.
Fuori stava inscurendo, ma ugualmente lo accolse un'ondata di aria più calda ed asciutta. Avanzò tra sassi e rovi, giungendo al ciglio di una scarpata. Di lì, come da un grande balcone, si vedeva la pianura svanire in lontananza nel buio viola della sera che arrivava.
Sentì dei passi dietro di se. Un vecchio e una vecchia, ciascuno con una fascina sulla schiena, venivano per il sentiero. Lo salutarono, e lui avanzò verso di loro.
Si fermarono e posarono le fascine, asciugandosi il sudore.
“Quella grotta” chiese Adelmo, “La Tana del Re Tiberio...è là il Gorgo Nero?”.
Il vecchio lo guardò stupito. “No, no. Il Gorgo Nero è un pozzo senza fondo giù nel piano, tra le paludi. Un pozzo che sottoterra comunica col mare, e a volte vi arrivano le onde della burrasca e della tempesta. E' quello il rumore che si sente fin quassù”.
La vecchia taceva.
Adelmo sedette in terra, sull'erba, mise una pagliuzza in bocca e guardò lontano. “Dunque nessuno sa dove sia e cosa sia, il Gorgo Nero” disse come a se stesso. “Ovunque lo si cerchi, è sempre altrove. Già, ecco dov'è: altrove”
“Io non so se sia nel piano, o in qualche altro posto” disse la vecchia, “ma c'è. L'ho sentito più di una volta, nella mia vita, e quando urla succede sempre qualcosa di grave, di terribile”.
Il buio arrivava veloce. Adelmo guardò ancora verso la pianura: nell'oscurità offuscata si vedevano numerosi aloni rossi di incendi, e fumo saliva a disperdersi nel cielo.
Solo nei giorni seguenti, quando scese dalle colline, seppe il perché di quei fuochi: il colera.
Il morbo era arrivato, rapido e terribile, e dove già aveva falciato vite si bruciava tutto dei morti: le coperte, i materassi, gli abiti, le cose.
Si fermò a Imola un giorno e una notte, poi incominciò il viaggio di ritorno alla sua città.
Una volta ancora, di pomeriggio, nella campagna bolognese, gli parve di sentire alle sue spalle, verso la Romagna, rimbombare il cupo mugghìo del Gorgo Nero.
Si girò indietro, ma già quel suono si era perduto e spento.



(tratto da "Urla nel grano", Moby Dick, Faenza 1994)


L'autore: Eraldo Baldini

Eraldo Baldini è nato a Ravenna nel 1955. Ha pubblicato le raccolte di racconti "Nella nebbia" (Longo, Ravenna 1988) e "Urla nel grano" (Moby Dick, Faenza 1994), e il romanzo "Bambine" (Theoria, Roma 1995)


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