rivista di letteratura in embrione

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Simona Vinci
Editoriale
In alto (racconto)
Note biografiche



EDITORIALE

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Simona Vinci


(...) Così d’accordo camminano teologia economia
semiologia cibernetica e altro ancora ignoto
che sta incubando, di cui noi saremo
nutrimento e veleno, pieno e vuoto.
(Eugenio Montale, da “Diario del ‘72”)


C’è posto per tutto, qui. Eppure non è facile, non è facile per niente.
Me ne sto qui con questo schermo davanti e non riesco a vedere nulla. Entrare in un computer, anche solo con lo sguardo, è perdersi, disgregarsi (moltiplicarsi?).
Punti che luccicano in lontananza, scie di passi precedenti, proiettili impazziti provenienti da chissà quali latitudini e longitudini del pianeta. Oppure da nessun luogo fisico.
Dal vuoto, da una memoria astratta, impersonale.
Non è la stessa cosa sapere che qualcuno leggerà le tue parole sulla carta morbida e paziente di un libro o su uno schermo a cristalli liquidi. Schegge irrelate, senza una direzione prestabilita, che tentano di inventarsi traiettorie e sperano che qualche occhio le trattenga almeno per un attimo prima di cliccare e farle scomparire chissà dove. Una bella sfida e qualcosa di spaventoso, insieme.
Ma le parole smuovono qualcosa in qualunque luogo siano pronunciate o scritte e un minimo spostamento d’aria è sufficente a far mutare l’insieme. Frammenti in viaggio per l’ignoto in un movimento frenetico e scomposto: un gregge pigolante di pulcini che cerca un’ala tenera e calda sotto cui ripararsi. E crescere.

IN ALTO

d i

Simona Vinci


“ Nel ciel che piu’ della sua luce prende
fu’io e vidi cose che ridire
ne’ sa ne’ puo’ chi di la’ su discende;(...)”.

DANTE Pd I 4-6


La fermata e’ un po’ fuori dal centro cittadino. Lei sola, sotto ad un cielo bianco. Sull’autobus, soltanto anziani, con lo sguardo liquido. Odore di corpi non giovani, lavanda e saponetta, pipi’ e plastica, naftalina. In fondo alla vettura, la fronte appoggiata al vetro, le mani strette attorno al tubo di metallo, un uomo giovane, coi pantaloni larghi, afflosciati su gambe lunghissime e magre. Dondola la testa da sinistra a destra, con un movimento rotatorio, costante. La donna attraversa l’autobus sotto lo sguardo atono dei passeggeri e lo raggiunge. Gli mette una mano sulla spalla.
“Paolo.... devo andare dall’avvocato stamattina, vieni, vieni con me, a casa non c’e’ nessuno oggi. Mamma e’ uscita e tu non hai le chiavi... fammi compagnia, vieni...”.
L’uomo la segue docile, senza rispondere. Scendono insieme alla fermata, entrano nel sottoppassaggio della metropolitana e aspettano la rossa. Quando escono allo scoperto, sono proprio al centro della piazza. L’uomo tiene lo sguardo rivolto verso l’alto. Con curiosa ostinazione, oltrepassa i tetti dei palazzi, piu’ in alto ancora delle guglie del Duomo, dritto verso il cielo pallido. E’ uno sguardo calmo, il suo. Guarda in alto. Come se quella fosse la direzione consueta dello sguardo, la piu’ semplice.
La donna cammina spedita, sicura, deviando al momento giusto, scartando opportunamente ostacoli di vario genere, sfiorandoli appena con l’orlo svolazzante della gonna. Il fratello le tiene dietro. Una mano aggrappata alla spalla di lei, stretta intorno all’osso magro, i polpastrelli pallidi per la presa. Un passo dopo l’altro e lo sguardo in alto, la testa completamente rovesciata all’indietro.
Nell’androne del palazzo, la visuale si restringe. L’uomo affretta il passo. Sono nel cortile interno del palazzo, in alto, un quadrato di cielo pallido. Punto di fuga. L’uomo solleva la testa, gli occhi ancora pieni di buio, per riemergere in quello straccio di cielo bianco, invernale e desolato.
“Aspettami qui, Paolo, non muoverti, ci metto poco, mi raccomando....”.
L’uomo muove la testa, ritmicamente, senza mollare il quadrato di cielo. Sì. Quando la donna si ritrova nel cortile lo vede la’, seduto come un indiano, a gambe incrociate, la schiena appoggiata al pozzo, la testa sollevata e gli occhi grandi, spalancati ad accogliere il cielo. Un cielo che da bianco sta diventando azzurro pallido, col crescere della giornata.
Le viene in mente un’immagine di loro due bambini, in campagna, seduti su un muretto, le gambe a penzoloni, tutte sporche e scorticate, la testa girata verso l’alto, a contare gli aerei. Pensa in un lampo che nonostante tutto quello che puo’ accaderci nella vita, le attitudini dell’infanzia non possono estinguersi completamente. Che anche se ce le dimentichiamo, arriva un giorno o l’altro un gesto che con una parabola velocissima congiunge il presente ad un corpo pallido e piccolo che e’ stato il nostro.

Si avviano verso il sottopassaggio. La donna cammina spedita, senza intoppi, nonostante la folla scomposta che invade via Torino. Si tira dietro il fratello. Camminano in fretta. I tetti delle case, i cornicioni, la teoria di finestre, scivolano sotto gli occhi dell’uomo. Finestre. Punti intermedi tra interno ed esterno, confini della possibilita’. Alternative.
L’uomo lascia lo sguardo correre insieme alle gambe su tanti rettangoli di vuoto aperti nei muri. E poi tutto e’ velocissimo. Un rumore sordo, indescrivibile. Un tonfo morbido. Il movimento della strada si blocca di colpo, i passanti rimangono immobili per qualche secondo, immersi in un silenzio strano, con il rumore delle auto che continua a fluire identico. Il passaggio successivo e’ uno scomposto movimento verso quella sagoma accartocciata per terra. La donna continua a stringere il braccio del fratello, in silenzio. Non riesce a pensare a niente, sente il sudore raccogliersi in miliardi di goccioline sulla fronte, le braccia, le gambe. Poi è tutto un turbinare di ruote e motori, sirene, voci che danno indicazioni, che organizzano, mettono ordine, ridanno al tempo la sua carica. Le viene questo pensiero stupido sulle sirene, come un gioco, tenta di rievocare tutti i suoni di sirene che ha sentito e sorride immaginando una colonna sonora con tutti questi suoni diversi: le sirene della polizia e delle ambulanze sono differenti in ogni paese, come se la paura di ogni popolo avesse una cadenza diversa, veloce o meno veloce, modulata e composta, oppure ripetitiva, monotona, impressionante. Qualcuno le stringe un braccio, piano. Un uomo alto, in divisa.
“Mi scusi...stiamo raccogliendo le testimonianze...Le spiace seguirmi fino a quella macchina all’angolo...solo un paio di domande...” Sorride. “E’ la prassi...”.
Lei lo segue docile, senza rispondere, trascinandosi dietro il fratello che continua a guardare la finestra, i muscoli del collo tesi nello sforzo di mantenere la direzione esatta. L’uomo alto, il poliziotto, fa giusto un paio di domande: cosa hanno visto, se la donna si e’ buttata di colpo oppure ha cercato di attirare l’attenzione, poi scrive le loro generalita’ su un blocchetto e li invita a sgomberare il marciapiedi. Al fratello ha lanciato uno sguardo pietoso, appena ironico. La donna ha dovuto spiegarglielo, perche’ all’inizio il poliziotto continuava a ripetergli la stessa domanda, quieto, con un tono cadenzato, sempre uguale e lui con il collo torto e lo sguardo alla finestra.
“Non parla... lo scusi... proprio non...”.
Non riesce mai a dirla quella parola, quella che lo classifica, che spiega, si’ perche’ le cose non stanno esattamente cosi’, le cose non stanno mai veramente e del tutto in un modo. Come si fa a comprimere tanto significato, dolore, inadeguatezza, paura in una successione di quattro sillabe? Ritardato. Per fortuna, il poliziotto ha capito e smette di fare domande.

Quando l’hanno convocata in Questura, non si è fatta alcuna domanda. Si è vestita con calma, ha fatto colazione in casa, guardando fuori dalla finestra il via vai dei passanti nell’aria grigia di via Ravenna.
La fanno accomodare su una sedia durissima, una specie di panca. Ci sono altre persone in attesa. Riconosce una donna pallida, coi capelli grigi, quella che aveva urlato. Adesso sta composta, le gambe grasse avvolte da calze trasparenti e un paio di scarpe di vernice, da bambina.
Suo fratello sta in piedi vicino alla finestra, guarda fuori. Le braccia abbandonate lungo i fianchi e le mani serrate, livide per lo sforzo. Un rumore forte di tacchi, ritmato, sulle scale e subito compare il poliziotto, quello alto, trafelato. Le rivolge un sorriso breve, di circostanza. Lei ricambia con un cenno della testa. Poi lo guarda chiudersi una porta alle spalle. Dopo qualche minuto, una ragazza bionda socchiude la porta e chiama il suo nome e quello del fratello. Lei scatta in piedi, raggiunge il fratello e lo prende per una mano.
“Vieni... è un attimo...”.
Al centro della stanza, una scrivania molto grande e tre persone intorno, riconosce un uomo corpulento, in doppio petto, che aveva visto anche la’, in via Torino. Era arrivato dopo le prime due auto e l’ambulanza. Aveva distribuito ordini e manate. Dopo il suo arrivo le cose si erano ricomposte, i gesti di tutti avevano incominciato a seguire un disegno. Di fronte a lui, il poliziotto alto che scambia le ultime battute con un tizio giovane, un po’ curvo. Parlano piano, quasi sottovoce. L’uomo in doppio petto si alza dalla poltrona, lento, massiccio, si piazza davanti alla donna. Il fratello sta li’ in piedi, immobile, finalmente lo sguardo concentrato su qualche cosa di diverso dal cielo. Davanti a lui, mentre la sorella parla, c’è quella finestra e quel corpo sottile, sospeso nel vuoto. Il corpo vola veloce verso l’asfalto, soltanto un pulviscolo all’angolo dello sguardo, appena dentro il campo visivo. Nel riquadro della finestra, l’ombra sistema la tenda, dopo aver guardato per una frazione di secondo la strada. Poi scompare.
L’uomo in doppio petto, sposta lo sguardo dalla donna a suo fratello, un paio di volte, poi si ferma. Adesso si guardano negli occhi, lui e l’uomo.
“Voleva dire qualcosa?”
Si guardano negli occhi per un istante, come si fa quando si sa che un mucchio di cose non sono state dette, che smetteranno d’esistere nell’esatto momento in cui gli sguardi si separeranno e che non potranno mai piu’ essere ritrovate, da nessuna parte.
Il fratello sbatte le palpebre una, due volte. Poi una mano guantata, calda e scura, lo avvolge compeltamente. Di nuovo buio, silenzio. Certezza. Di nuovo il mondo visto da molto lontano. Occhi ben aperti, ma rivolti verso l’alto, perche’ l’altezza non e’ soltanto vertigine, ma liberta’.
La donna si avvicina al fratello, gli stringe un braccio. “E’ tutto a posto, adesso possiamo andare”.


“ A l’alta fantasia qui manco’ possa;
ma già volgeva il mio disio e il velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle. “

DANTE PD XXXIII 142-145

(Inedito)


L'autore: Simona Vinci

Simona Vinci è nata a Milano il 6/3/1970. Studia Lettere Moderne all’Università di Bologna.

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