rivista di letteratura in embrione

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Gianpiero Rigosi
Editoriale
L'aggancio (racconto)
Note biografiche



EDITORIALE

d i

Gianpiero Rigosi


Ehi, ragazzi, vi piace il paté di pulcini?
(sul massimalismo in letteratura)


-A proposito di quel nostro progetto di fondare una rivista letteraria su INTERNET,- mi hanno detto. -Ci stai?
-Certo, come no?
-Bene, allora prepara un editoriale.
-Ma cosa ci devo mettere?
-Be', vedi tu.
Il titolo della rivista era saltato fuori quasi per caso, a notte fonda, mentre eravamo tutti attorno a una tavola ingombra dei resti di una cena e di un discreto numero di bottiglie vuote.
INCUBATOIO 16
Bello, suggestivo, e in qualche modo inquietante.
Qualcuno ha fatto notare che nell'incubatoio ci stanno le uova, e che l'uovo simboleggia la potenzialità creativa. L'embrione che diventa pulcino, l'essere vivente che prorompe dal guscio e si avvia alla crescita. Abbiamo alzato i bicchieri e brindato al futuro del nostro progetto.
-Dentro l'incubatoio ci stanno le uova e i pulcini,- ha osservato Nerozzi.- Però dal nome potrebbe sembrare anche una fabbrica di incubi.
E l'idea ci è piaciuta ancora di più. Quindi abbiamo brindato di nuovo, perché ogni scusa è buona per buttare giù un bicchiere, e a questo punto Lucarelli ha chiesto: -A proposito di incubatoi e di incubi, lo sapete cos'è successo a un incubatoio che c'è da queste parti, qualche anno fa?
Noi non lo sapevamo, quindi siamo stati ad ascoltarlo, ed è saltata fuori la storia granguignolesca di un autoarticolato che è finito fuori strada, e ha centrato in pieno la facciata di un incubatoio, sfondandone i muri, e spappolando in un colpo solo qualcosa come ventimila pulcini.
Ci siamo concentrati per cercare di immaginare che accidenti di spettacolo doveva essere stato quello di un TIR conficcato nella facciata di uno stabile, con una marmellata di carne e sangue e piume che colava fuori dalle pareti, spargendosi lungo il bordo della strada asfaltata.
Cos'è il massimalismo in letteratura? Si potrebbe dire che quest'immagine lo rappresenta benissimo: un TIR lanciato a cento all'ora su una strada, che sfonda la facciata di uno stabile e ci penetra dentro, fracassando pareti e mattoni e putrelle d'acciaio. Il massimalismo è un camion impazzito che sbanda, esce dai confini della strada asfaltata, e con fracasso allucinante penetra fra i muri apparentemente solidi di un incubatoio -fabbrica di incubi o di pulcini.
Pensiamo alla potenza dirompente dell'impatto. Pensiamo al frastuono.
Pensiamo all'attimo prima.
Da un lato, l'apparente immobilità di una grande fabbricato che dall'esterno appare immerso nella quiete più assoluta (ma non dimentichiamo che al suo interno qualcosa ribolle: che si tratti di incubi o di pulcini). Dall'altro, un autoarticolato che pesa tonnellate: enorme massa di ferro che fa a brandelli l'aria, e macina strada su strada. Alla guida del TIR, un camionista abbioccato dalla doppia porzione di tagliatelle al ragù, dalla cotoletta al sugo con contorno di patate fritte, dalla caraffa di sfuso un po' pesante della pianura, dalla coppetta di mascarpone, e dal bicchierino di amaro buttato giù sopra il resto. Questo dobbiamo immaginare: il ruggito del motore del camion, sulla strada, e la sagoma squadrata dello stabile: il silenzio pesante dei suoi muri, oltre i quali si agita il pigolio inquieto dei pulcini, forse presaghi dell'imminente disastro. Basta un istante, ecco, sta già succedendo: il camionista, nella sua cabina tappezzata di poster di ragazze nude, chiude gli occhi per un attimo -un attimo solo, si dice, per giustificarsi di quella sua sonnolenza indigesta-, il gigantesco veicolo sbanda, devia dal suo percorso rettilineo, esce di strada. Le ruote slittano sul bordo della carreggiata, oltrepassano con un sobbalzo il fosso, si mangiano l'erba, poi divorano la ghiaia di uno spiazzo, e il muso va a sbattere con immane violenza contro la facciata di uno stabile, ne fa esplodere i muri, penetra all'interno, travolge tutto quello che incontra: pannelli, macchinari, cellette. Sfonda gabbie su gabbie: è un massacro. Sulla strada si spande una melassa densa di carne e sangue e piume. Visione apocalittica, travolgente, angosciosa, esteticamente inquietante.
Niente sfumature intimiste, né minuscoli patemi mentali, né chiaroscuri psicologici cesellati all'uncinetto. Niente di tutto questo: qua abbiamo lo schianto, il boato, l'urlo, l'esplosione. Qua siamo nel territorio del massimalismo letterario. E' il noir più estremo, è l'horror che sconfina nello splatter, è il delirio della violenza, è la tragedia della vita, è l'ironia che si mescola alla morte: questo è l'autentico massimalismo. Contro ogni sonnolenza narrativa, eccolo qua: ironico e travolgente, abissale e vertiginoso, forse anche un po' romantico.
Vi piace questo genere letterario? Bene, allora qua dentro potrete trovare qualcosa che soddisferà i vostri palati.
Ripensiamo all'incidente. Il fumo e la povere si stanno lentamente diradando: ora è possibile cogliere con più precisione l'entità del disastro. Fate attenzione: cos'è quella roba che cola fuori dai muri sfondati? E' il sangue, ragazzi! Non ne riconoscete il colore, la consistenza, l'odore? Coraggio, avvicinatevi, provate ad assaggiarlo. Immergete la punta delle dita nella crema rossa che si spande sul terreno. Cosa ne dite? E' di vostro gradimento?
Vi piace il paté di pulcini?
Forza, allora, buttatevi! E buona lettura.



L'AGGANCIO

d i

Gianpiero Rigosi


Lui forse pensava di essere spiritoso. Come tutti quelli della sua razza. Capigliatura perfetta, le chiavi del mondo nella tasca dei pantaloni alla moda e il cazzo da rabdomante con la cappella sempre gonfia e pronta a vibrare in presenza di umidità vaginali eventualmente ben disposte.
Mi ha sparato un paio di fucilate infallibili col suo sguardo caricato a salve, inchiodando due falcate di seguito della mia camminata. Poi mi ha fatto grazia di un sorriso afrodisiaco, di quelli che stappa, suppongo, nelle grandi occasioni. La grande occasione, nel mio caso, era costituita da una minigonna in misto acrilico color rosa shocking, che mi scendeva per la brevità calibrata di tre centimetri e mezzo sotto la piega tra le coscie e le natiche. Ognuno usa la carta moschicida che ha.
Quando si è convinto che ero cotta a puntino, ha tentato un abbordo frontale, degno dei suoi antenati corsari.
“Non vorrei sembrarti sfacciato,” ha sfacciatamente esordito, “ma c'è qualcosa nel tuo modo di fare che m'ispira parecchio.” Non avevo dubbi su cosa. “Lo accetteresti un invito al bar?”
Io l'ho guardato in silenzio, senza rispondere nulla, perché l'amo gli si conficcasse ben bene nel gozzo, e lui ha continuato: “Solo per bere qualcosa. Davvero. Ti fidi?”
Povero stronzo. Mi fido? Lo vedrai se mi fido.
“Diciamo di sì,” gli ho risposto.
“Ah, bene. Sono davvero contento,” ha concluso lui, prendendomi sottobraccio, neanche fossimo amici d'infanzia. “Lo dico sempre che le persone, al giorno d'oggi, non si lasciano mai andare. La gente è diventata fin troppo sospettosa. Non credi?”
Mai abbastanza, cazzone, mai abbastanza, ho pensato, rifilandogli uno di quei sorrisi che non vogliono dire assolutamente nulla. Di quei sorrisi, insomma, che piacciono ai tipi così.
Il problema, a questo punto, è solo fargli credere che siano loro a condurre la danza. Del resto abboccano tutti: è troppa la voglia di sentirsi irresistibilmente attraenti. Così non è che ci ho messa tanta fatica per convincerlo che sbavavo per lui. Gli sarà sembrato normale.
Quando ho fatto quell'accenno al mio appartamento, e che avremmo anche potuto farci un salto, mi è sembrato di sentirglielo gonfiare dentro la patta, il suo attrezzo. Si è leccato le labbra (come fossero i baffi del suo sesso goloso) e mi ha detto: “Guarda che ti prendo in parola.”
Una volta stavo con un tizio. Uno dei soliti, né meglio né peggio degli altri, suppongo. Ricordo che si portava a scopare le donne in un buco in affitto. Un posto così squallido che faceva venire da piangere. Lo scannatoio, lo chiamava. E i suoi amici ridevano, pensando a tutte le vergini a cui era saltato l'imene in quella latrina. Lo scannatoio. Così adesso mi diverto a chiamarlo a quel modo, il mio appartamento: un monolocale più bagno e cucina che ho comprato a una cifra ridicola.
Mentre giravo la chiave nella toppa, ne ha approfittato per sollevarmi un lembo di gonna, infilare la mano sotto quel velo di mutandine che indosso, e raccogliermi un gluteo nella coppa del palmo.
“Stai calmo,” gli ho detto ridendo. “Non correre troppo.”
Siamo venuti a sederci sul divano, e immediatamente ci siamo fiondati uno sull'altro, ficcandoci le lingue e le dita in decine di posti.
A un certo punto gli ho chiesto: “Senti, ti andrebbe di bere qualcosa? Giusto per ritardare quel tanto che basta il piacere. Cosa ne dici?” Per fortuna gli andava.
Così sono venuta in cucina, ho preso i bicchieri da sopra il lavello, e aperto lo sportello del frigo.
La polverina la tengo nell'incavo nascosto di un anello. Come madama Borgia, mi piace pensare. Ne ho versata una dose abbondante nel suo. Il beverone lo tengo già pronto, chekerato e con ghiaccio, per fare più in fretta.
Preferisco non usare veleno, ma un potente narcotico che ha un effetto speciale: agisce, di solito, una mezz'ora più tardi, e cioè proprio mentre stiamo finalmente chiavando. Così si addormentano tutti col cazzo duro come una spranga dentro la mia dolce fessura. E la cosa, devo dire, mi va a genio. In questo modo posso godermela in pace, senza dover ascoltare tutti quei loro tremendi grugniti.
Ma soprattutto mi piace studiare le loro reazioni quando, più tardi, si svegliano saldamente legati al mio robusto letto di ferro battuto. Sono commuoventi quei loro inutili tentativi di urlare attraverso il bavaglio che gli riempie la bocca, mentre io tiro fuori gli arnesi. E come si agitano quando comincio a darmi da fare! E' una meraviglia osservare come guizzano sotto pelle i loro muscoletti, atterriti dalla gelida carezza dalle mie lame o dal tocco rovente del mio saldatore. Adoro esplorargli lo sguardo mentre gli stacco con una sciabolata di rasoio l'uccello.
Sono riapparsa mentre il tizio si stava togliendo le scarpe, tenendo in mano i due bicchieri e in mente che il suo era quello di destra. “Allora,” gli ho sussurrato, con un sorriso da far saltare le lampo, “te l'immagini quel che ci aspetta?”
Quasi quasi ho provato pietà, nel momento in cui, venendomi incontro a piedi scalzi mi ha detto: “Ti giuro che non vedo l'ora, bellezza!”

(Tratto da AA.VV., “Rzzzzz!”, Transeuropa, 1993)



L'autore: Gianpiero Rigosi

Giampiero Rigosi è nato nel 1962 a Bologna, dove vive e lavora. Ferrofilotramviere sulla rete urbana, ha pubblicato diversi racconti su quotidiani e riviste ed è apparso sulle raccolte “Giallo, nero e mistero” (Stampa Alternativa, 1994) e “Rzzzzz!” (Transeuropa, 1993). Ha pubblicato il romanzo “Dove finisce il sentiero” (Theoria, Roma, 1995)

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